“WAKE UP!” E “STRANGE DAYS”: LA POESIA DI JIM MORRISON SI AFFERMA NEL ROCK



L’importanza della poesia nella carriera dei Doors è riconosciuta e risaputa, in particolare con la sua evocativa presenza all’interno dei concerti. Opera di Jim Morrison e del suo genio innovativo, sono versi nello stesso tempo dannati e sublimi, i quali distinguono gli show del gruppo californiano da tutto ciò che era venuto prima nella musica moderna.

Un aspetto meno conosciuto di questa irripetibile manifestazione espressiva è quello della tempistica con la quale la poesia emerge tra le pieghe della musica suonata dai Doors. A partire dal novembre 1965 essi iniziano la propria storia come band, esibendosi quasi ininterrottamente in centinaia di concerti fino al dicembre 1970.

Fino all’autunno del ’66 Morrison mantiene un atteggiamento relativamente contenuto durante i live della band, non esprimendo ancora a pieno la propria personalità sul palco. Una seconda fase, la quale termina nella primavera del 1967 vede affermarsi nel cantante una nuova dinamicità intellettuale. Essa è in grado di generare le prime improvvisazioni poetiche poste al centro delle canzoni o come connessione tra esse. Con la primavera del 1967 la poesia diviene un elemento primario delle sperimentazioni che assorbivano il frontman dal vivo; queste ultime acquisiscono infatti una importanza sempre maggiore fino a divenire tra i momenti più intensi degli spettacoli.

Dalla metà del 1967 l’interesse di Morrison si sposterà sempre più sull’aspetto poetico e teatrale degli show, come conferma un interessante estratto da una intervista rilasciata nel giugno di quell’anno ad un giornale americano. In esso egli spiega che: “Voglio che il pubblico senta la stessa catarsi che sentivano gli antichi greci guardando i loro spettacoli”. Siamo qui nel momento in cui il gruppo era intento a registrare il suo secondo, meraviglioso, LP: “Strange Days”. Un periodo, dunque, dove la vena poetica di Morrison cresceva di pari passo a quella psichedelica che stava dando forma alle canzoni del disco appena citato.

Questa dimensione poetico-teatrale prende gradualmente, tra le altre, anche le sembianze di una vera e propria sezione dei concerti, dedicata sia a poesie scritte precedentemente dal cantante che a versi improvvisati e creati al momento. Essa non assume una forma del tutto consolidata, lasciando ampio spazio all’ispirazione e all’estro che ogni serata suggeriva a Morrison. Tuttavia, alcune sue parti rimarranno costanti nel tempo, come, ad esempio, il celebre urlo che la introduce: “Wake up!”.

Questa emozionante sezione conduceva il concerto nei meandri oscuri ed inebrianti, delineati da versi poetici e brevi poesie. Si componeva così una disarmante successione fatta di stati d’animo disorientanti e ruggenti esplosioni vocali. Anche il resto della band si inoltrava nella sfera della improvvisazione creativa, seguendo le parole e le urla di Morrison con suoni discordanti e carichi di pathos. Al termine di questo sconvolgente percorso, un secco colpo al tamburo rullante della batteria, assestato con decisione da John Densmore, dava inizio al tema introduttivo di “Light My Fire”.

Nell’estate del 1967 assistiamo quindi alla genesi di questa sequenza, la quale, per quanto frequente diventerà dal vivo, non sarà mai fissata su vinile. A collocarla in questo periodo temporale sono due registrazioni dal vivo, le uniche di quel periodo dove abbiamo modo di sentire “Light My Fire” suonata in concerto.

La prima è data da un prezioso bootleg che immortala buona parte della performance risalente al 4 luglio del 1967 a San Bernardino in California. Essa mostra come questo brano inizi direttamente senza essere preceduto dalla serie di versi poetici dei quali abbiamo appena parlato (ascolto al min. 23.00).

La volta successiva nella quale possiamo ascoltare “Light My Fire” in una registrazione siamo a Danbury (Connecticut) il 10 ottobre 1967. Grazie ad un altro bootleg, disponibile anch’esso su YouTube, si constata come la incredibile sequenza abbia invece già pienamente preso forma (ascolto dal min. 28.58 al min. 30.48 del bootleg citato). Benché difficilmente decifrabile nei particolari a causa della bassa qualità sonora, traspare comunque chiaramente la dirompente magia del momento. Dobbiamo ringraziare calorosamente chi, a suo tempo, ha registrato questi due concerti poco conosciuti, ma dall’incommensurabile valore artistico e storico-musicale.

Tra queste due registrazioni non abbiamo altre testimonianze che ci possano fare restringere ulteriormente il periodo temporale che abbiamo definito il più precisamente possibile: l’estate 1967 (da luglio a settembre).

Una cosa però è certa, il processo creativo che porta Morrison a introdurre momenti di poesia ben definiti nei concerti dei Doors coincide con le registrazioni in studio di “Strange Days” (aprile-agosto 1967). Questa coincidenza è resa ancora più appropriata se si nota come anche in questo LP sia presente una poesia svincolata da ogni tipo di arrangiamento e da ogni struttura musicale. Stiamo parlando infatti di “Horse Latitudes”, la traccia numero cinque di “Strange Days”. Per altro, vale la pena di notare che anche quest’ultima composizione era entrata a fare parte dei concerti già dall’estate ’67.

Questa breve inchiesta musicale si conclude quindi con la contestualizzazione della prima sequenza poetica dei Doors (da “Wake Up!” a “Light My Fire”) nel periodo delle registrazioni dell’album “Strange Days”. Un accostamento non sempre tenuto in considerazione quando si pensa all’introduzione della poesia nel repertorio live dei Doors e, più in generale, nel Rock.

Grazie a mildequator.com per l’articolo di giornale dal quale è estratta la frase in corsivo.


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