“HORSE LATITUDES” DEI DOORS: LA POESIA NEL ROCK DAL VIVO
La traccia numero
cinque del secondo LP dei Doors è una poesia chiamata “Horse Latitudes”.
Si tratta di un’opera
giovanile di Jim Morrison che il frontman recita senza l’accompagnamento strumentale
del resto del gruppo.
Un sottofondo
caotico e angosciante rende il testo ancora più inquietante ed evocativo di
quanto già non lo sia il significato complesso e straziante delle parole.
Una poesia al
centro di un disco Rock nel 1967 costituisce qualcosa di estremamente
innovativo, un azzardo che intendeva mettere in luce la capacità della band di
offrire qualcosa in più della sola musica.
Fin dai primi
mesi del 1967, infatti, i Doors iniziano ad includere nei propri concerti
momenti improvvisati, spesso al centro di canzoni o come collegamento tra di
esse, dedicati alle poesie di Morrison.
Questi
irripetibili attimi di arte dal vivo, senza mediazioni commerciali di alcun
tipo, vedevano le tastiere, la chitarra elettrica e la batteria mettersi al
servizio dei poemi ideati e interpretati dall’estro imponderabile ed
abbagliante di Jim Morrison.
Le esibizioni
live dei Doors divennero così veri e propri show, dove la performance artistica
travalicava l’arte musicale per raggiungere la dimensione della poesia e del
teatro.
La presenza di
una poesia recitata nel secondo album della band (pubblicato il 25 settembre
1967) conferma l’importanza data a questi momenti.
“Horse Latitudes”
viene inoltre trasportata anche nei concerti di quel periodo, rimanendo in
scaletta a fasi alterne per diversi anni.
Vogliamo portare
due esempi di come essa veniva proposta al pubblico dalla band, due momenti
distanziati nel tempo da poco più di due anni, ma uniti dalla modalità con la
quale la poesia è stata arrangiata.
Il primo concerto
è quello svoltosi a Danbury, in Connecticut, l’11 ottobre 1967, vale a
dire due settimane dopo l’uscita dell’album “Strange Days”.
L’apertura della
serata è affidata a una versione estesa di “Moonlight Drive”, un pezzo tratto
proprio da quest’ultimo LP, nel quale è collocata come traccia numero sei
subito dopo “Horse Latitudes”.
A Danbury, una
volta giunto alle fasi finali di “Moonlight Drive”, il gruppo continua a
mantenerne il ritmo come sottofondo mentre Morrison inizia a recitare “Horse
Latitudes” (qui la versione di Danbury ’67 della quale stiamo parlando) in
una atmosfera più melodica e morbida rispetto a quella creata nell’LP.
Gli effetti
creati dalla chitarra R. Krieger come sottofondo della voce sono non solo interessanti,
ma apertamente orientati a tradurre in suoni le parole che sono pronunciate da
Morrison.
Subito dopo “Horse
Latitudes”, i Doors ripetono l’ultima sequenza strofa-ritornello di “Moonlight
Drive” per poi concludere il brano a 6.30 minuti di durata complessiva.
Il secondo
concerto sul quale vogliamo portare l’attenzione e nel cui contesto i quattro
musicisti inseriscono la poesia “Horse Latitudes”, è quello svoltosi al Felt
Forum di New York il 17-18 gennaio 1970 (qui la versione di “Moonlight Drive” a New York nel ’70 della quale stiamo parlando).
Qui i Doors sono
nella fase finale delle proprie esibizioni live, tuttavia, lo schema sopra
descritto per Danbury si ripete inalterato, come anche l’arrangiamento scelto
per l’occasione.
In mezzo a “Moonlight
Drive” Morrison pronuncia in maniera rilassata i versi di “Horse Latitudes”, adagiandoli
in maniera pacata sul tappeto di suoni ammiccanti disteso dagli altri tre
componenti del gruppo.
È la chitarra di Robby
Krieger, in particolare, ad accompagnare la recitazione con contenute esplosioni
elettriche, arrotondate dalla tecnica “slide guitar” da lui utilizzata per
questo brano.
Da notare che pochi
secondi prima di attaccare il poema “Horse latitudes” Morrison regala al
pubblico newyorkese (e a noi) un breve verso improvvisato sul momento ed estratto
da una sua poesia.
Il verso
improvvisato a New York dal frontman per pochi secondi e inserito al centro di “Moonlight
Drive”, poco prima di “Horse Latitudes”, è abbastanza criptico e recita: “Children
of the caves will let their secret fires glow” (In italiano: “I figli
delle caverne faranno brillare i loro fuochi segreti”).
Dopo questo fuori
programma, “Horse Latitudes” scorre fluida, per incresparsi solamente sul
finale. Infatti, qui come nel caso di Danbury, la voce del cantante si
inasprisce per pochi secondi al termine del poema.
Egli ne delinea
così una versione che, nonostante i suoi contenuti, nel complesso non è né tormentata
né aggressiva (a differenza di ciò che possiamo invece sentire nell’LP “Strange
Days”).
Se nel caso del
concerto dell’ottobre 1967 si tratta di un bootleg, con le conseguenti
difficoltà audio, a New York la registrazione è nettamente migliore dal punto
di vista della qualità del suono.
Consigliamo
naturalmente entrambi gli ascolti (in particolare Danbury), poiché
rappresentano grandi esperienze sonore e artistiche.
Essi sono due
esempi di come la band californiana fosse in grado di esprimere musica di
altissimo livello insieme a performance artistiche, teatrali e poetiche di
grande impatto, inedite tanto per la scena musicale dell’epoca e che per quella
futura.
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