"PALACE IN THE CANYON" DEI DOORS: BELLISSIMA E SCONOSCIUTA
Tra le canzoni
non incluse negli album dei Doors, ma suonate dal vivo, nessuna è così poco
conosciuta e celebrata come “Palace In The Canyon”.
Siamo nella fase
finale del percorso di Jim Morrison all’interno della band: il dicembre 1970.
Circa quattro mesi dopo partirà per Parigi e gli altri tre membri non lo
rivedranno più (morirà il 3 luglio nella capitale francese).
L’11 dicembre i
Doors suonano a Dallas, in Texas, un concerto che viene fortunatamente
registrato sottoforma di bootleg.
Questo live fa
parte di una serie di concerti che devono introdurre al pubblico il nuovo LP
(“L.A. Woman”), il quale è in via di registrazione, appunto, tra la fine del
dicembre ’70 e l’inizio del ’71.
Sebbene la
qualità audio non sia di buona qualità, l’esibizione di Dallas rappresenta un
documento importante nella storia della band. Infatti, si tratta dell’ultima
registrazione dal vivo disponibile prima della morte di Morrison.
In questo storico
live compare anche una sconosciuta e inconsueta canzone, “Palace In
The Canyon”, mai menzionata nelle session di registrazione del disco che,
come già detto, stavano proprio in quel periodo mettendo su vinile.
Inoltre, nessuna
traccia del brano compare in altri momenti della carriera del quartetto
californiano, né sul palco né in studio, rendendo così il concerto di Dallas
dell’11 dicembre 1970 l’unica prova documentata della sua esistenza.
Una sorta di
mistero discografico che non diminuisce affatto la bellezza disperata e la
straziante magia evocate da questa incantevole perla nascosta nel repertorio
dei Doors.
L’ideazione del
pezzo è da attribuire a Morrison, in primo luogo sotto forma di poesia e,
secondariamente, nel condividerla con il resto del gruppo per conferirle la sua
forma finale.
L’arrangiamento
costruito da batteria, organo elettrico e chitarra elettrica attorno alla
poesia del cantante è notevole almeno da due punti di vista.
Il primo è la
sorprendente innovazione musicale che esso denota; il secondo è il fascino cupo
che fa discendere con forza sull’ascoltatore.
Canzone o poesia
messa in musica? In questo caso la risposta può essere lasciata alle preferenze
personali, in quanto ci troviamo di fronte a una declinazione del genere rock
inedita per il 1970 (e oltre) che fonde questi due generi espressivi.
Priva di una forma
propriamente definita, “Palace In The Canyon” si dispiega attraverso la successione
di strofe, lungo le quali l’esecuzione diviene progressivamente più concitata e
intensa.
L’atmosfera
sonora creata dalla band poggia su due elementi principali.
Il primo è dato
dalla solenne marcia funebre ripetuta da John Densmore alla batteria, la quale
accompagna con costante e dolente rassegnazione lo svolgersi della composizione.
Il secondo
elemento si ritrova invece negli accordi prolungati dell’organo elettrico di
Ray Manzarek, che sembrano dilatare spazio e tempo come a liberare la
percezione dello spettatore da ogni costrizione.
Su questa base
strumentale la chitarra elettrica di Robby Krieger, alla quale è applicata la distorsione
detta “wha wha”, interviene con brevi e ricorrenti fraseggi dal sapore mesto e amaro.
Essi divengono più
incisivi nel finale, fino a trasformarsi quasi in un assolo, capace di
sottolineare la rabbia angosciata che caratterizza l’ultimo minuto del pezzo.
Naturalmente, ciò
che riempie “Palace In The Canyon” di quella tristezza ammaliante che la rende meravigliosa,
è la performance vocale di Jim Morrison.
Quest’ultima si
trova alla suggestiva intersezione tra canto e recitazione drammatica. Un territorio
musicale prima di allora mai esplorato da nessuna voce, nel quale il frontman riesce
a fare confluire amore, delusione, ubriachezza, disinganno, frustrazione, tenerezza,
disperazione e rancore.
La parte vocale
segue una traiettoria ascendente per forza e asprezza lungo i tre minuti e
mezzo della canzone, di pari passo al progressivo sovrapporsi del lato umano a quello
puramente artistico del cantante.
Nei momenti
conclusivi di “Palace In The Canyon” possiamo sentire l’urlo straziante, carico
di dolore e rabbia che Morrison scaglia contemporaneamente al microfono e al
cielo.
Questo grido rappresenta
il punto focale del pezzo: la tragica chiusura di un percorso di vita e musica,
iniziato 4 anni prima anni prima con l’urlo energico e misteriosamente sensuale
che possiamo sentire al minuto 1.50 del primo singolo pubblicato dai Doors, “Break On Through (To The Other Side)”.
Il testo tratteggia
la solitudine di un poeta dall’animo lacerato a causa di un amore impossibile e
fatale (per la vita e per Pamela Courson), nondimeno vissuto fino alla sua lancinante
agonia.
Le malinconiche parole
formano così un connubio perfetto con la bellissima melodia e la originale linea
vocale, in una tetra cerimonia poetico-musicale sospesa tra fuoco e lacrime.
Con la presenza truce
e severa della morte già sopra di sé, Morrison consegna ai posteri, con sguardo
spento e cuore in fiamme, il testamento di una carriera geniale, maledetta, ormai
prossima al triste epilogo.
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