“UNIVERSAL MIND” DEI DOORS: UN ROCK POETICO DI JIM MORRISON


“Universal Mind” fa parte di quella decina di pezzi dei Doors che non sono mai stati utilizzati in nessuno dei loro album, pur avendo attraversato alcuni anni del loro viaggio musicale. Composizioni che appaiono e scompaiono tra outtake, bootleg e live e che in diversi casi avrebbero meritato una considerazione più elevata.

Tra esse spicca “Universal Mind”, concepita da Morrison approssimativamente nel corso della prima metà del 1969. Egli stava percorrendo in maniera caotica il periodo della sua vita maggiormente turbolento e instabile, soprattutto a causa di una profonda crisi personale e dei dissensi artistici con il resto della band.

Inoltre, il suo ruolo di rockstar, tramutatosi in una maschera oramai a lui estranea, pesava in maniera intollerabile sulla sua individualità.

Da queste premesse scaturisce un pezzo rock dalla forte impronta poetica e sofferente, rivelatrice delle difficoltose contraddizioni interiori ed esteriori appena esposte.

Il testo del brano si presta a una molteplicità di interpretazioni, le quali hanno in comune il tema dello smarrimento di un ragazzo di venticinque anni dotato di straordinarie capacità, ma inserito in un contesto fatalmente autodistruttivo.

Questa condizione è riassunta dall’evidente, disorientata infelicità, la quale è esplicitata dal triste verso che chiude le strofe della canzone: “Ora sono molto solo / sto solo cercando una casa / in ogni posto che vedo”.

Una malinconia evidenziata anche dalla prima parte della strofa, nella quale invece viene succintamente e malinconicamente evocato un passato felice (“I was doin’ alright”; “Stavo bene” in italiano).

Il ritornello, amaramente sarcastico, descrive la sua condizione attuale (nel 1969), caratterizzata dalla fama e da ampie possibilità materiali, ma vuota di significato rispetto ai momenti più luminosi della sua esistenza, percepiti come distanti nel tempo (“Sono l’uomo libero .... Ecco quanto sono fortunato”).

A questo testo doloroso si abbina una struttura musicale dove sia la strofa che il ritornello vedono Morrison a metà tra il canto e il racconto parlato e sono sostenuti da un accompagnamento strumentale ritmato, ma creato appositamente per non distogliere l’attenzione dal cantante.

Tra gli accordi lievemente fluttuanti dell’organo elettrico di Manzarek e gli abbellimenti apportati dalla chitarra elettrica di Krieger, emerge la dinamica batteria di Densmore nel suo rimarcare l’ostinato ritmo spezzato che ricorda le avversità narrate dalle parole di Morrison.

La voce è certamente l’elemento più affascinante di “Universal Mind”. Essa veleggia dolorosamente sugli strumenti, come un vascello che, irrimediabilmente danneggiato, arranca senza una destinazione in attesa di affondare. Tuttavia, il suono della linea vocale non è solamente intriso di rassegnata afflizione.

Ravvisiamo in essa anche una nostalgica e mesta determinazione nel sottolineare come un evento legato al mondo della musica abbia modificato in peggio la propria situazione personale, la quale era inizialmente, come già accennato, piacevolmente stimolante. Una situazione, quest’ultima, definita con un termine appartenente alla cultura “hippie” del periodo: la “Mente universale” (“Universal Mind” in inglese).

La definizione “Mente Universale” è probabilmente indicativa di uno stato di coscienza amplificato dalla comunione spirituale con le altre persone e con l’ambiente circostante. Che sia indotta o meno dall’uso di LSD, questa condizione relazionale viene rappresentata da Morrison come estremamente gratificante nonché ideale per mettere i suoi talenti a disposizione di chi lo attorniava.

Il brano era stato inserito nelle esibizioni dal vivo fin dall’estate 1969 e, in particolare, a partire dalla scaletta che i Doors eseguono all’Aquarius Theatre di Los Angeles nel luglio di quello stesso anno (qui il link).

Una performance che si distingue in particolare per la interessante transizione strumentale che occupa la parte centrale della canzone (dal min. 2.14 al min. 2.56).

Qui Densmore, Manzarek e Krieger prendono ispirazione da una sezione di “Afro Blue" nella bella lettura datane da John Coltrane nel 1963 di questo pezzo jazz.

Il sassofonista si collocava in quel momento tra lo stile Hard Bop e il Jazz Modale, rappresentando per molti musicisti, anche Rock, un riferimento musicale stimolante e originale. I Doors erano tra coloro che ascoltavano con maggiore attenzione la sue magiche evoluzioni sonore e ne traessero spunto per suggestivi passaggi strumentali disseminati in alcune loro canzoni del periodo 1966-‘67.

La citazione di “My Favorite Things” che possiamo ascoltare in “Universal Mind” all’Aquarius Theatre è sviluppata, nella sua parte melodica, da organo elettrico (con l’aggiunta del Fender Rhodes Piano Bass suonato con la sinistra da Manzarek) e chitarra elettrica. Sotto il loro suono strettamente coordinato, la batteria di Densmore spazia tra i tamburi e la gran cassa richiamando, per quanto possibile, il percorso percussivo che sentiamo narrare da Elvin Jones nell’originale.

Questa resa di “Universal Mind” diverrà anche la più celebre, in quanto selezionata per entrare a fare parte dell’unico album dal vivo pubblicato durante la carriera della band: “Absolutely Live”.

Essa sarà dunque divulgata più ampiamente di qualsiasi altra (il disco vende un buon numero di copie negli Usa sul finire del 1970), tuttavia è superata qualitativamente dall’esibizione compresa in uno dei due concerti che i Doors tengono a New York nel gennaio 1970 (qui il link).

L’accenno a “My Favorite Things” fatto nel ’69 all’Aquarius Theatre è qui sostituito da una più tradizionale sezione strumentale, costituita da un breve assolo svolto da Manzarek all’organo elettrico. Malgrado questa sostituzione, al Felt Forum di New York la voce di Morrison è più definita, incisiva, convincente e drammatica rispetto alla versione dell’Aquarius Theatre, facendo così preferire di poco la performance del gennaio ‘70.

Come detto, “Universal Mind” emerge saltuariamente nei live dei Doors a partire dall’estate ’69 fin quasi a quella dell’anno successivo (dunque complessivamente per circa un anno), ma non viene mai registrata in studio.

In maniera deludente e francamente incomprensibile, essa viene esclusa da almeno due album (“Morrison Hotel” e “L.A. Woman”, se non addirittura anche da “The Soft Parade”) in favore di tracce di qualità nettamente inferiore (come, ad esempio, “Queen Of The Highway” o “Love Her Madly”).

Un vero spreco musicale a detrimento della eminente espressività di questa poesia rock tipicamente morrisoniana.  Uno spreco che è stato in parte compensato nel corso del tempo dalle diverse versioni live fortunatamente disponibili.


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