"DO IT" DEI DOORS: SOLAMENTE UN RIEMPITIVO SENZA PRETESE?

 

Considerata da molti come una canzone di secondaria importanza nel catalogo dei Doors, “Do It” (qui il link) si colloca all’interno del lato A di “The Soft Parade”, quarto album della band che viene pubblicato nel luglio 1969.

Certamente non paragonabile ai numerosi capolavori prodotti dalla band californiana nel corso della propria carriera, questo brano contiene però alcuni interessanti elementi musicali che vale la pena prendere in considerazione con più attenzione di quanto sia stato fatto fino ad ora.

“Do It” nasce nell’autunno del 1968 dalla interazione tra un riff del chitarrista Robby Krieger e un conciso testo di Jim Morrison.

Il risultato viene portato in studio di registrazione nel novembre dello stesso anno per essere registrato in vista del seguente LP, il quale in quel momento non aveva ancora una forma precisamente definita.

Nell’agosto 1969 la composizione occuperà anche il lato B di uno dei singoli estratti da “The Soft Parade” (con “Runnin’ Blue” come lato A), senza però ottenere riscontri apprezzabili: 64esimo in America e nulla di fatto in Inghilterra.

Mai rinvenuto nei concerti e nei bootleg del quartetto, il pezzo del quale stiamo parlando sembrerebbe essere immeritatamente destinato ad un oblio musicale quasi completo.

Tuttavia, a partire dall’inizio del brano, notiamo come “Do It” non sia affatto un riempitivo, offrendoci al contrario alcune rare e stimolanti prospettive sonore sull’inconfondibile rock suonato dai Doors.

La sinistra risata, a metà tra la malvagità e l’ebrezza, con la quale Morrison apre velenosamente il pezzo, annuncia l’originalità di un percorso inusuale ed evocativo al tempo stesso.

L’introduzione (che coincide con i primi 40 secondi della traccia) ricorda vividamente il classico attacco che la band utilizzava dal vivo per introdurre alcuni dei suoi brani, soprattutto grazie ai vocalizzi astratti e allungati del cantante.

In questa prima parte, gli strumenti abbozzano accordi e fraseggi appena accennati, proiettandoli in avanti per poi interromperne ripetutamente lo sviluppo, come un treno che scalda i motori nella fase iniziale della sua corsa in vista dell’imminente accelerazione.

Al min. 0.40, un profondo glissando tracciato dalla chitarra elettrica lancia la band nella rotolante e risoluta andatura della strofa, la quale è sospinta dal deciso convergere sulla stessa figura ritmico-melodica di tutti i membri della formazione (voce compresa).

Ben presto il tema rock così concepito raggiunge il suo culmine nel ritornello (ad esempio, dal min. 1.00 al min. 1.04), dove la voce arresta all'improvviso la sua marcia scura e coinvolgente avvitandosi aspramente verso l’alto.

Sia Robby Krieger (chitarra elettrica) che Ray Manzarek (tastiere) sovra incidono due parti ciascuno, arricchendo così l’arrangiamento di strati sonori ben integrati tra loro.

La prima chitarra, maggiormente evidente, è quella distorta dal pedale fuzz, la quale reitera con le sue note gravi il riff principale della composizione durante la strofa e interviene con incisive pennellate nelle altre sezioni.

Una seconda chitarra è registrata da Krieger in chiave puramente ritmica, questa volta assestandosi su note più acute, smussate dal riverbero ad esse applicato.

I due organi elettrici suonati da Manzarek (rispettivamente un Hammond C3 e un Gibson K101) si sovrappongono quasi costantemente lungo la canzone, combinando in modo suggestivo la consistenza liquida del primo con il robusto flusso di accordi del secondo.

L’organo Hammond emerge da questa doppia trama sonora in particolare dal min. 1.33 al min. 1.52, quando l’introduzione viene riproposta, in assenza di un vero e proprio middle eight, come transizione musicale volta a diversificare il brano.

La prestazione migliore all’interno della composizione si rivela però quella della sezione ritmica: la batteria di John Densmore e il basso elettrico del noto e stimato sessionmen Harvey Brooks.

Il loro ruolo rimane apparentemente in secondo piano, tuttavia è doveroso notare come il pattern costruito dai due musicisti sia dinamico, entusiasmante e gradevolmente complesso.

La linea percussiva di Densmore è caratterizzata da uno shuffle frammentato ed irregolare, soggetto a variazioni, stop e ripartenze che ne esaltano l’originalità intrinseca.

Il batterista conduce con scioltezza il brano lungo uno svolgimento rock ritmicamente accidentato e piacevolmente articolato, sommando in esso tecnica e sperimentazione pur rimanendo comunque accessibile.

Da segnalare anche il trascinante tema del basso elettrico ideato da Harvey Brooks, purtroppo poco udibile nel mixaggio finale, ma nondimeno è degno di nota grazie alla sua elastica creatività.

La struttura d'insieme della canzone è piuttosto atipica, dispiegandosi secondo una sequenza per nulla convenzionale: introduzione, ritornello - strofa (x2), ritorno dell’introduzione, strofa, transizione, strofa, coda.

In abbinamento alla insolita scenografia strumentale appena descritta, il testo di Morrison risulta estremamente sintetico, limitandosi sostanzialmente a due soli versi: “Please please listen to me children” nella strofa (“Per favore ascoltatemi bambini” in italiano) e “You are the ones who will rule the world” nel ritornello (“Voi siete quelli che governeranno il mondo” in italiano).

A dispetto delle poche parole impiegate, il significato di “Do It” si configura come un appello alla coscienza sociale dei giovani, specialmente a coloro che animavano il movimento di protesta culturale negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60.

Una chiamata alla consapevolezza delle responsabilità insite nella gioventù stessa, alla quale spetteranno ruoli di potere economico e politico in un domani non troppo lontano.

Questo testo, troppo spesso sottovalutato, costituisce una prova dell’interesse di Morrison rispetto all’attualità e al futuro della collettività, divenendo così una accorata esortazione rivolta dal poeta alla propria generazione.

Nel suo complesso, “Do It” merita di essere rivalutata, non come pezzo di grande bellezza, ma come invitante occasione per apprezzare uno degli episodi più inusuali e singolari nell’ambito della discografia dei Doors.


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